T Trailer

R Recensione

7/10

Ruby Sparks regia di Jonathan Dayton

Fantasy
recensione di Fulvia Massimi

Scrittore-prodigio investito a soli diciannove anni dello scomodo appellativo di "genio", Calvin Weir-Fields (Paul Dano), ormai alla soglia dei trent'anni, sembra aver perso l'ispirazione. A fargliela ritrovare sarà l'incontro onirico con la ragazza ideale: Ruby Sparks (Zoe Kazan), frutto perfetto della sua immaginazione. Peccato che un giorno Ruby si trasformi in realtà.

Lanciati nel 2006 dal Sundance Film Festival e consacrati dagli Academy Awards dell'anno seguente grazie allo straordinario lungometraggio d'esordio, Little Miss Sunshine, i coniugi Jonathan Dayton e Valerie Faris hanno avuto il merito, o de-merito, di portare il cinema indie alla ribalta, trasformandolo non solo in un fenomeno di consumo paradossalmente mainstream, ma anche in un vero e proprio genere cinematografico.

Ruby Sparks, brillante opera seconda dal sapore metafilmico e metaletterario, non fa che confermare tale tendenza, esplicitando le marche sintattiche, semantiche e pragmatiche - per dirla alla Rick Altman - che costituiscono oramai di diritto gli indicatori di una trasformazione di genere arrivata al suo pieno compimento.

La rilettura del reale in chiave "alternativa" e stravagante resta il punto di partenza imprescindibile da cui prendere le mosse per affrontare le sorti del soggetto americano contemporaneo, costretto ad assistere, se non a subire, le derive surreali della società che lo circonda, e ad arrangiarsi come meglio può per farsi largo fra esse.

L'ottima sceneggiatura firmata dalla nipote d'arte Zoe Kazan (anche protagonista femminile del film), non potrebbe offrire sostegno narrativo più adatto all'estetica e alla linea di pensiero promosse dalla coppia di registi californiani, che alla riflessione sulla famiglia disfunzionale ritratta in Little Miss Sunshine fanno seguire la disamina delle dinamiche sentimentali in una relazione decisamente fuori dal comune. Praticamente inappuntabile fino al suo "punto centrale" lo script della Kazan analizza con sintetica efficacia  la parabola discendente di uno scrittore in crisi, servendosi dei luoghi comuni del caso (peso della notorietà, senso di fallimento, sedute d'analisi alleniane decisamente poco ortodosse) senza eccessiva compiacenza, e preparando per il terreno per la svolta fantascientifica che costituisce l'essenza ultima della riuscita del film: la realizzazione di una fantasia d'amore ideale che si tramuta in incubo, disintegrata dalla forza auto-distruttiva dell'immaginazione creatrice.

Nevrotico e frustrato, accompagnato nel suo percorso di autocommiserazione da un fratello ossessionato dalla forma fisica (Chris Messina) e da uno psicanalista eccessivamente paterno e condiscendente (Elliot Gould), Calvin Weir-Fields (splendidamente interpretato dal Paul Dano/Dwayne di Little Miss Sunshine), incarna alla perfezione il prototipo dell'anti-eroe indie, ovvero del tipico soggetto post-moderno incapace di relazionarsi serenamente e facilmente con la realtà caotica e contraddittoria che lo circonda. In questa società del simulacro, dove l'immagine si sostituisce alla verità del reale, l'esercizio del potere creativo è tutto ciò di cui un perdente (archetipo caro alla tradizione indie) come Calvin può disporre per mantenere il controllo sulla propria vita. Ma cosa succede quando alla magia del processo immaginativo si sostituisce l'abuso maniacale del ruolo demiurgico?

Alla spinosa questione cerca di rispondere  Zoe Kazan, che delinea per il proprio partner (Dano, compagno anche nella vita) un ruolo ostico ed ostile, un ritratto di maschio sognatore, sì, ma anche profondamente manipolatore ed androcentrico, che sull'altare di una relazione perfetta sacrifica il piacere e il diritto del libero arbitrio, trascendendo le barriere della differenza sessuale per infine annullarle del tutto. «It's like we are the same person», grida Ruby, esasperata dalla claustrofobia simbiotica in cui la relazione con Calvin si è trasformata, e lo statuto ontologico o fantastico del suo personaggio passa in secondo piano di fronte al vero centro nevralgico della pellicola.

Se infatti il carattere metariflessivo di Ruby Sparks non sembra presentare nulla di particolarmente originale in un panorama cinematografico dominato da scrittori e sceneggiatori che interloquiscono con il parto della propria immaginazione, arrivando talvolta a controllarne le azioni, è piuttosto nella naturalezza con cui la fantasia si manifesta e attesta la propria presenza fisica che l'inventiva della Kazan si esprime al proprio meglio. Ruby Sparks non è allora tanto, o soltanto, una meditazione sui danni che la creazione artistica può generare, ma piuttosto una rielaborazione in termini contemporanei e agrodolci del mito di Narciso. Più che "dreamgirl" o alter ego femminile di Calvin, Ruby è infatti la proiezione di una fantasia romantica che resta masturbatoria quanto la pratica della scrittura.

Non c'è magia né miracolo nelle azioni di Calvin, che usa la macchina da scrivere come una frusta, facendo di Ruby il proprio animale da circo e incidendo sulla carta "il proprio ideale platonico di ragazza" per realizzare il sogno, impossibile, di avere una relazione con se stesso. E, dunque, una relazione priva di complicazioni. E' la paura di affrontare i problemi del rapporto con l'altro (sesso), non quella di veder concretizzato il proprio potenziale di genio creativo, a terrorizzare Calvin: la paura di non poter avere tutto sotto controllo, di lasciarsi andare alle emozioni e di ritrovarsi infine come la madre (cameo "citazionista" per Annette Bening, accoppiata ad un improbabile Antonio Banderas), spogliata dei propri panni borghesi per fondersi panicamente con la natura.

Pur realizzando una pellicola dall'estetica accattivante, fedele alle marche di "genere" tipiche dell'indie contemporaneo (che di indipendente, basti guardare Van Sant, ha ormai solo il nome), Dayton e Faris traggono dalla sceneggiatura della Kazan il giusto input per metterle in questione - e infine riaffermarle. Nella geometria immacolata dell'appartamento di Calvin - fotografata nientemeno che da Matthew Libatique (e si vede) - così come nella rigidità ossessivo-compulsiva delle sue manie di controllo, risiede l'incarnazione di un principio reazionario contro il quale la spontaneità di Ruby si insinua con forza devastante.

Se Calvin è l'antieroe indie per eccellenza - chiuso, intimidito, fondamentalmente monadico (è il cane Scotty a fargli da pretesto di socializzazione) - le sue paranoie conservatrici fanno piuttosto di Ruby l'effettiva rappresentate dello spirito "indipendente": l'esaltazione di una "normalità" paradossalmente diversa e stravagante, resa tanto più rassicurante dal suo essere semplice, schietta, impulsiva, mai schiava delle regole e soprattutto fiera dei propri difetti. Esattamente come i folli membri del clan degli Hoover, in viaggio sul vecchio furgoncino Volkswagen con un cadavere nel bagagliaio e qualche giornaletto porno comprato all'autogrill.

Sono solo le ingenuità del finale - non esattamente lieto e forse votato ad un "eterno ritorno" sentimentale monotono e, qui sì, prevedibile - a rovinare in parte le ottime intenzioni di uno script-gioiello, che si arresta a qualche passo di distanza dalla completezza di Little Miss Sunshine, ma che, considerata la giovane età della sua autrice, non ha poi molto da farsi rimproverare.

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
alexmn 8/10

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.