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R Recensione

5/10

In Grazia di Dio regia di Edoardo Winspeare

Drammatico
recensione di Pasquale D'Aiello

E' la storia di quattro donne di una stessa famiglia in un piccolo paese del basso Salento ai nostri tempi di epocale crisi economica. Il fallimento dellï'impresa familiare e il pignoramento della casa sembra distruggere tutto, anche i legami di affetto. L'unico modo per uscirne è trasferirsi in campagna, lavorare la terra e vivere con il baratto dei loro prodotti. Sarà proprio questa scelta obbligata l'inizio di una catarsi che porterà le protagoniste a riconsiderare il loro stile di vita e soprattutto le loro relazioni affettive.

Difficile non avere simpatia per Edoardo Winspeare, regista che lascia trasparire in modo evidente il suo tentativo di fare un cinema anche coraggioso, fatto di contenuti, di scelte difficili che spesso devono fare i conti anche con una struttura produttiva che vive soprattutto di low budget e talvolta con partnership e sovvenzioni istituzionali che sempre più maturano in quella Puglia, che oltre che sua terra, sta diventando la nuova Hollywood del cinema italiano, soprattutto di quello indipendente, grazie alla visione del presidente Vendola, che vede nel cinema uno strumento di promozione di quella regione. Tuttavia non si può non notare un certo ripiegamento del regista su scelte meno originali di quelle di uno dei suoi primi film, Sangue vivo (2000). La differenza sta soprattutto nella scelta del registro narrativo. Mentre in Sangue vivo si sceglieva definitivamente e con pieno successo un tono totalmente drammatico e pienamente realistico, successivamente, già a partire da Galantuomini (2007) il registro diventa più incerto e più debole, sia per la recitazione degli attori profesionisti sia per le scelte di sceneggiatura. Dopo la parentesi di un gradevole documentario su una scuola multietnica del centro di Roma, Sotto il Celio Azzurro (2010), questo film forse avrebbe dovuto rappresentare un ritorno alle origini, sia per collocazione della storia, il Salento, sia per la scelta di attori non professionisti e dell'uso del dialetto come lingua. Ma l'operazione non può dirsi pienamente riuscita. La storia raccontata ricalca molto da vicino la trama di Speriamo che sia femmina (1986) di Mario Monicelli, qui il registro è prevalentemente drammatico ma risulta poco convincente a causa di una sceneggiatura fatta di dialoghi ed eventi troppo "telefonati" o, al contrario, troppo precipitati, segmentata in scene troppo "pulite" che tolgono l'effetto di realismo che avrebbe dovuto accompagnare questo progetto. Come nel film di Monicelli, anche qui la morale è un ritorno alla natura e un affidamento forte al ruolo della donna, che si pone come nuova eroina in grado di resistere alla crisi sociale dell'economia e quella personale della famiglia. Ma se alle immagini manca la forza dell'emozione ogni enunciazione diventa una pura affermazione incapace di innescare un dialettica con lo spettatore.

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