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R Recensione

6/10

Piccola Patria regia di Alessandro Rossetto

Drammatico
recensione di Gloria Paparella

Primo "lungometraggio di finzione" di uno tra i nomi più significativi del documentario italiano (già al centro nel 2010 di una retrospettiva al New York Documentary Film Festival), Piccola Patria racconta, sullo sfondo di un'estate calda e soffocante nella provincia del Nordest italiano, tra rigurgiti indipendentisti e istinti xenofobi, la storia di due ragazze e del loro desiderio di andare via dal piccolo paese dove vivono. Luisa (Maria Roveran) è piena di vita, disinibita, trasgressiva; Renata (Roberta Da Soller) è oscura, arrabbiata, bisognosa d'amore. Le vite delle due giovani raccontano la storia di un ricatto, di un amore tradito, di una violenza subita: Luisa usa Bilal (Vladimir Doda), il suo fidanzato albanese, Renata usa il corpo di Luisa per muovere i fili della propria vendetta. Entrambe vogliono lasciare la piccola comunità che le ha cresciute, tra feste di paese e raduni politici, famiglie sfinite e nuove generazioni di immigrati presi di mira da chi si sente sempre minacciato. Luisa, Renata e Bilal rischieranno di perdersi, di perdere una parte preziosa di sè, di perdere chi amano, di perdere la vita.

Girato nella provincia del Nordest italiano, Piccola patria si presenta come un film realista, che scava così a fondo nell’atmosfera, nel linguaggio e nel pensiero del territorio nel quale è ambientato da richiamare le tecniche e lo stile del documentario. Le protagoniste sono Luisa (Maria Roveran) e Renata (Roberta Da Soller), due amiche legate dalla stessa rabbia e dallo stesso desiderio di lasciare per sempre la piccola comunità che le ha cresciute, dove esse non immaginano nessun futuro. Per racimolare qualche soldo in più, oltre al lavoro come cameriere presso un hotel, le due giovani decidono di girare un video erotico da utilizzare per ricattare l’uomo che si serve del corpo di Renata per soddisfare i propri impulsi sessuali, in cambio di soldi. Per farlo, approfittano dell’inconsapevolezza di Bidal (Vladimir Doda), il ragazzo albanese di Luisa, disprezzato e preso di mira, come tutti gli altri immigrati, da parte dei cittadini locali che si sentono minacciati: in un’estate calda e soffocante, il gioco estremo delle due ragazze metterà a rischio non solo il loro rapporto di amicizia, ma anche l’amore ingannato di Bidal per Luisa, e il clima di isteria generale porterà allo sfinimento la sopportazione delle loro famiglie.

Il regista Alessandro Rossetto porta sul grande schermo, nel suo primo lungometraggio, la fotografia di una piccola realtà della provincia triveneta, dove si parla orgogliosamente il dialetto e dove chi non appartiene al luogo viene mal visto. A questa realtà, però, non vogliono rimanere ancorate le due protagoniste: piena di vita e spirito libero, Luisa, interpretata dalla brillante rivelazione Maria Roveran, crede che per lei ci sia un futuro migliore altrove, magari al fianco del suo ragazzo Bidal. Dura, rigida ed arrabbiata, Renata concede il suo corpo per denaro, ma in realtà ha solo bisogno di amore e per questo si sente unita alla sua amica. Tutto intorno a loro è un degrado dal quale vogliono fuggire e il regista si sofferma più volte, sia con panoramiche dall’alto, sia con primi piani che sembrano infiniti, ad inquadrare quello spazio abbandonato e desolato. Un’inerzia che rispecchia la mentalità degli abitanti del luogo, in primis il padre di Luisa, ignaro del fatto che la figlia sia fidanzata proprio con un albanese e il cui odio xenofobo lo ha spinto ad armarsi di pistola.

Oltre alla povertà locale e alla mancanza di un’apertura mentale, Piccola patria tratta senza mezze misure il tema del sesso, inteso non solo come gioco di piacere (per Luisa), ma anche come mezzo per riscattarsi dalla meschinità e dalla violenza (per Renata) che finisce per assumere i contorni tragici di una realtà sempre più deviata. Per questo il lavoro di Rossetto può essere considerato un film estremamente fisico, che fa della fisicità uno strumento per raggiungere un obiettivo chiaro: lasciare quella zona oscura e priva di sogni che è la vita di paese.

Il film è volutamente grezzo nello stile e nella forma, anche se ancora sperimentale: è come se il regista abbia voluto superare gli schemi espressivi tradizionali, ma stia ancora cercando la propria identità comunicativa, il proprio linguaggio. La pellicola rimane comunque un potente e coraggioso ritratto di una piccola “patria”, di una realtà, in questo caso intima e locale, ma che avrebbe potuto essere universale, globale: questi due estremi, il radicamento nel territorio e l’universalità del racconto rendono il film in qualche modo innovativo, ma che lascia allo stesso tempo la sensazione di incompiutezza, soprattutto nel finale sospeso, che risulta poco incisivo. Profonde e vibranti le musiche e le voci del canto alpino che accompagnano le immagini e le atmosfere di periferia, le quali conferiscono un senso di epicità e di solennità al film.

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