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4/10

Mangia Prega Ama regia di Ryan Murphy

Commedia
recensione di Antonio Falcone

L'anno sabbatico della giornalista Elisabeth Gilbert, in viaggio tra Italia, India e Indonesia alla ricerca di se stessa e di un significato da dare alla propria esistenza.

Elisabeth Gilbert (Julia Roberts), giornalista di successo, bella casa ed un marito (Billy Crudup) che le vuole bene, è profondamente insoddisfatta, piange spesso, cerca di pregare, pensa e ripensa ad un simpatico sciamano conosciuto durante un servizio giornalistico a Bali, che le ha fornito una sorta di profezia sulla sua vita. Dopo aver divorziato, si tuffa in una nuova storia con un attore off Broadway (James Franco), ma i tormenti interiori sono sempre vivi e pungenti. Deciderà allora di concedersi un anno sabbatico alla ricerca del proprio Io, tra Italia, India e Indonesia, concludendo il proprio viaggio dove tutto ha avuto inizio. Qui ritroverà la propria felicità, di spirito e di corpo, rispettivamente grazie allo sciamano di cui sopra e al portoghese Felipe (Javier Bardem).

Imbarazzante. Non riesco a trovare altro aggettivo per descrivere il disagio nel vedere per ben 140’ la sempre affascinante Julia Roberts cercare di stare a galla, tra lacrimucce d’ordinanza, sorrisi forzati, ammiccamenti, mossette varie, in quel pantanoso coacervo di luoghi comuni, ovvietà, discorsi filosofeggianti allegramente e spietatamente bignamizzati che risulta essere Mangia prega ama. Sconcertante. Non vi è altra definizione per descrivere il contributo come regista di Ryan Murphy, che pur padroneggiando la macchina da presa con pregevole eleganza, non riesce mai a far sì che gli attori superino la monodimensione, creando un minimo di  empatia, sostituita da una sin troppo esplicita ruffianeria. Solamente Richard Jenkins, almeno a parer mio, riesce ad imprimere una certa vivida e dolente forza alla propria interpretazione, nel raccontare il fallimento della sua vita e i forti motivi che lo hanno spinto al ritiro in India.

 Colpa anche di una sceneggiatura (sempre Murphy, con Jennifer Salt), che enfatizza la retorica del soggetto, l’omonimo  bestseller autobiografico di Elisabeth Gilbert, elevando la banalità a livello di stile, rendendo il tutto buono per qualche talk show televisivo pomeridiano o anche di seconda serata, magari incentrato su un dotto cazzeggio esistenziale. Irritante. Ancora un aggettivo funzionale a descrivere ciò che mi ha suscitato il vedere Roma e Napoli spennellate in uno stantio acquerello anni ‘50: nella capitale ecco il popolo italico al suo meglio, gente sempre gesticolante, caciarona, giovinastri intenti a tastare i sederi delle belle figliole di passaggio, tampinandole in perenne allupamento.Taccio volentieri su una improbabile affittacamere dall’accento broccolino che spiega all’allibita Julia come riscaldare l’acqua per lavarsi, perché lo scaldabagno non funziona e sulla lezione del cicerone Luca Argentero sul dolce far niente in cui saremmo specialisti.

  Napoli non merita altro che la visione del classico vicolo tutto panni stesi e scugnizzi ed una dissertazione sulla pizza: protesto vivamente per la mancanza del mandolino, sostituito “efficacemente” dalla amena musichetta che introduce l’episodio. Non se la passano meglio New York, tra grattacieli in panoramica, lussuosi appartamenti abitati da gente che sembra non aver altro da fare nella vita nella vita se non partecipare ai soliti party con la gente che conta, l’India con il suo Ashram pseudo hippy, ma con le stanze per la meditazione dotate di aria condizionata, mentre per Bali andare alla voce guida turistica, sintetizzata ad uso e consumo dell’ovvio.

 Il tutto contornato da una fotografia (Robert Richardson) che parte dai chiaroscuri di New York per arrivare ai toni caramellati, stucchevolmente da cartolina, delle successive ambientazioni. Il tema della scoperta di sé, per quanto non nuovo, avrebbe in sostanza meritato ben altra caratterizzazione, interpretativa, visiva e, soprattutto, di scrittura, volta a coinvolgerci intimamente e non a portarci al tedio tra semplicismi culturali ed una evidente disarmonia tra ciò che si voleva esprimere  e quanto si è, malamente, espresso.

 

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