13 Assassini regia di Takashi Miike
AvventuraAmbientato nel Giappone dell’epoca Tokugawa (1603-1868), il film descrive la difficile impresa di tredici spietati e fedelissimi samurai che accettano l’incarico di assassinare il giovane fratello dello Shogun, il feroce tiranno Naritsugu. A capo del manipolo di assassini c’è il saggio Shimada Shinzaemon (palese riferimento al Kambei Shimada, protagonista de I sette samurai), mentre l’esercito di Naritsugu è capeggiato da Hanbei: in passato, grande nemico di Shimada. Il loro compito diventerà portare avanti una missione suicida, una crociata in cui tutti loro avranno modo di confrontarsi, ognuno secondo la propria indole, con la morte, il tema centrale dello spirito del Bushido.
Da vero samurai, Takashi Miike si assume il gravoso incarico di riesumare il genere cinematografico del jidai geki, tanto caro a Masaki Kobayashi, Masahiro Shinoda e allo stesso Eiichi Kudo, autore del Jûsan-nin no shikaku (I tredici assassini) del 1963, adattandolo alle richieste del pubblico occidentale, non trascurando, tuttavia, le radici del cinema nipponico. Citando Kurosawa e I sette samurai, Miike ci dona una pellicola violenta, appassionata e tragica che non si limita a ricordarci la tradizione orientale, ma che diventa un preziosissimo ibrido tra il frenetico western alla Peckinpah e le precedenti pellicole di Miike che fanno della violenza una chiave di lettura della società contemporanea. D’altronde il regista ha sempre affermato che “la violenza significa amore e armonia. La cosa curiosa è che più l'amore è grande, più aumenta la violenza. In altre parole, sono la stessa cosa.”
Non è casuale la prima scena della pellicola, riproduzione del rituale del seppuku, come non sono casuali, ma meticolosamente studiati, tutti i primi piani e i dettagli delle bellissime scene ambientate negli interni, ma soprattutto delle scene corali coreografate come straordinarie sequenze action. Miike è, appunto, un regista contemporaneo, ma rispettoso del codice dei samurai e lo dimostra in ogni dialogo, in ogni inquadratura di questo stupendo capolavoro di “cappa e spada” giapponese. È un vero e proprio modernizzatore della tradizione, che dà prova di conoscere in maniera intima e patita. Grazie alla figura del villain Naritsugu, il regista introduce l’immagine di un Giappone in declino, in cui il rispetto e la fedeltà dei samurai iniziano a diventare un pretesto per una patologica forma di cieca distruzione, in mano ad una società moderna priva dei principi che caratterizzavano la vera essenza del Bushido.
Come il testo dell’Hagakure, il cinema di Miike è un codice diretto ai ronin, ai samurai che hanno perduto, per una serie di vicissitudini indipendenti dalla loro volontà, il Signore da servire. In fondo, la nostra società contemporanea è fondata su questa condizione di profonda sofferenza in cui anche gli individui sostenuti da validi principi morali sono nella situazione di non avere più un “Signore” da servire. Il samurai si ritrova a dover difendere l’onore e il dovere a discapito della propria vita, perché la via del guerriero è ineluttabile, ma, talvolta, questo senso del dovere imprigiona le persone, soprattutto se appartenenti alle nuove generazioni (come il nipote di Shimada che non voleva diventare samurai), impedisce loro di vivere liberamente l’esistenza.Così, il regista mostra la battaglia finale ponendola come una folle crociata, che non finirà finché tutti non moriranno, adempiendo al loro dovere di samurai. “L'essenza del Bushido è prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata. Quando un samurai è sempre pronto a morire padroneggia la via” (Hagakure) In parte, Miike sembra voler citare, nella fotografia e nei colori utilizzati nelle sue sequenze, Yukio Mishima che scriveva, ne La voce degli spiriti eroici Il governo dell'Imperatore fu tinto da due colori: rosso sangue fino al termine della guerra, e dopo iniziò l'epoca del languido grigio cenere. L'Impero fu realmente inondato di sangue dal giorno in cui Sua Maestà abbandonò alla loro sorte i nostri fratelli maggiori, e si ricoprì di vana cenere il giorno in cui dichiarò la sua umanità, il giorno in cui definì tutto ciò che era accaduto "una concezione immaginaria". Per questo motivo, se dimentichiamo la sorte dei samurai e delle loro folli imprese, inizierà un’epoca avvolta dal grigiore di un’esistenza priva di principi morali. Il loro codice, la loro fedeltà e il loro attaccamento all’onore diventeranno una concezione immaginaria e lo spirito delle nostre nazioni, di conseguenza, verrà annientato. L’unico punto debole di 13 assassini sembra essere quello di non enfatizzare abbastanza questa visione della società moderna. Alla fine, Shinrokuro Shimada, il giovane nipote di Shinzaemon, cammina, metaforicamente, impugnando la sua katana, tra le rovine della sua società feudale, ma, pensando al suo imminente futuro da ronin o, addirittura, da uomo libero, accenna un timido sorriso, in uno scenario di grigia distruzione. Siamo proprio sicuri che ci sia realmente motivo di sentirsi tanto felici?
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