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7/10

L Immortale regia di Richard Berry

Thriller
recensione di Maurizio Pessione

L’ex padrino della mala marsigliese Charly Mattei, ritiratosi da tempo per evitare ulteriori rischi per sé e la famiglia che ha messo su nel frattempo, viene inspiegabilmente crivellato con 22 pallottole da un gruppo di sicari mascherati nel garage di un centro commerciale. Qualunque uomo normale non sarebbe sopravvissuto, ma Charly sì, miracolosamente, nonostante all’ospedale qualcuno tenti pure senza successo, subito dopo il ricovero, di finirlo. Seppure menomato ad un braccio, egli torna a casa dopo una lunga degenza ed in breve tempo viene a scoprire l’identità del mandante. La prima reazione non è di vendetta, Charly preferirebbe tentare una mediazione, ma l’uccisione brutale di un suo fedele collaboratore ed il rapimento dei suoi figli lo convincono a tornare sulla scena, feroce come un angelo sterminatore e determinato a chiudere i conti. La strada lungo questo percorso di rivalsa e di liberazione è lastricata di lacrime e sangue.

Nel commentare un film come L’Immortale bisogna fare chiarezza immediatamente su un possibile equivoco, inevitabilmente generato da questa come da altre opere analoghe che vedono come protagonista un uomo che è diventato un nome di spicco scegliendo di vivere fuori dalla legge. La storia raccontata da Richard Berry riguarda infatti avvenimenti realmente accaduti, se non proprio nei particolari perlomeno nella sostanza, relativi al boss Jacky Imbert, narrati da Franz-Olivier Gisbert nell’omonimo romanzo.

Chi è Charly Mattei, questo il suo nome di fantasia usato nel film in oggetto? Si tratta di un padrino della mafia marsigliese, forse il più importante per lungo tempo, il quale dopo anni di dominio incontrastato ha rinunciato al suo ruolo avendo conosciuto una prostituta, della quale si è innamorato e con la quale ha messo su famiglia. Non si tratta di un pentito quindi, ma soltanto di un uomo che ha fatto una scelta fondamentalmente controcorrente, egoistica da un lato, etica a suo modo dall’altro, per uscire dal giro della criminalità che è diventata nel frattempo sempre più spietata e senza regole.  Passando la mano per godersi la famiglia, dopo aver trascorso una vita spericolata, egli ha sperato di potersi assicurare una sorta d’incolumità. Mattei infatti è un boss vecchio stampo, che ha sempre applicato regole d’onore, del tipo mai mettere di mezzo le donne ed i bambini oppure sporcarsi le mani e la coscienza con la droga. Anche per questo la sua figura, pur rimanendo carismatica nel suo giro, è diventata con il tempo anacronistica.

Tornando all’equivoco cui si accennava all’inizio esso nasce dal fatto che in concreto in queste storie romanzate si corre il forte rischio di idealizzare certe figure (ed il titolo in questo caso è esemplificativo) in base ad alcune caratteristiche e valori, come il coraggio e la determinazione, passando sopra a tutto il resto, certamente meno eclatante. Ciò dipende in gran parte dal facile richiamo ed il fascino perverso, che il male in generale e la mafia con le sue imprese sanguinose in particolare, provocano nell’immaginario collettivo. Il caso della biografia di Vallanzasca portato recentemente sullo schermo da Michele Placido conferma questo rischio mitizzazione al quale s’associano spesso motivazioni come il rifiuto della società civile con implicazioni che riguardano addirittura la morale, la politica e le istanze esistenziali. Nella gran parte dei casi in realtà si tratta solo di interpretazioni di comodo che gli stessi protagonisti di quelle vicende non hanno mai rivendicato o che ignorano del tutto.

Come dice lo stesso Charly ‘Io sono quello che sono e non sono certo un esempio’. Il problema semmai per certe figure come la sua è che una volta entrate nella criminalità organizzata ed esasperate da lotte di potere fra clan diventa difficile se non impossibile uscirne poi e queste contraddizioni morali finiscono per rivoltarsi contro, come boomerang che tornano puntualmente al punto di partenza. Il suo rivale Zacchia (Kad Merad) è sin troppo chiaro nei confronti di Charly quando quest’ultimo lo accusa di essere diventato troppo crudele e spietato: ‘Il male è il male, è dentro di noi e dobbiamo accettarlo’. 

Tolta di mezzo appunto ogni ambiguità di stampo etico e socio-politico, si può senz’altro affermare che L’Immortale è un film spettacolare, un noir teso che non concede praticamente tregua allo spettatore. Richard Berry dimostra di aver imparato bene la lezione da Coppola, Scorsese ed in generale dal cinema gangster americano, al quale ha aggiunto di suo toni ed  ambientazioni tipicamente nostrane. Un’opera che rappresenta una sorta di ponte ideale con il cinema francese degli anni settanta che sulle gesta della malavita marsigliese ha creato un redditizio filone, ad iniziare da Borsalino di Jacques Deray. La scena in ospedale nella quale il killer si introduce nottetempo per tentare di finire Charly, incredibilmente sopravvissuto all’agguato e preventivamente spostato in una stanza diversa da una sua fedele collaboratrice, è invece un chiarissimo riferimento ed omaggio a quella arcinota ed analoga del Padrino di Francis Ford Coppola.

La solida coppia Luc Besson (in questo caso nei panni di produttore) e Jean Reno, che ha funzionato egregiamente in una serie di opere precedenti, da Subway a Nikita, da Le Grand Bleu a Leon stavolta vede il corposo attore francese alle prese con un film spesso molto violento, come capita di vedere sovente negli ultimi tempi quando ci sono di mezzo temi e personaggi analoghi, ma in questo caso con ancora maggiore realismo, come se ricorrendo all’efferatezza delle immagini si volesse sopperire ad altri limiti, narrativi ad esempio, per rendere quindi più convincenti ambienti ed atmosfere già ampiamente sfruttati al cinema.

Richard Berry è molto attento nel disegnare sin nei dettagli le due figure di spicco evidenziandone anche le paranoie (Zacchia riguardo l’igiene e la salute) e le manie (Charly riguardo la musica lirica) ma purtroppo eccede in alcune digressioni che nulla aggiungono dal punto di vista dei contenuti ed anzi, peggio ancora, li banalizzano. La poliziotta vedova con figlioletto a carico (Marina Fois) che lascia solo a casa quando è già buio, nonostante abbia ricevuto nel frattempo biglietti minatori e telefonate anonime, mentre lei intanto combatte una sua personale battaglia contro la malavita nella speranza d’incastrare il mandante dell’omicidio del marito, poliziotto a sua volta, è poco credibile in generale e scade in sentimentalismo spicciolo. Anche il personaggio del questore arrivista, vile e profittatore nei confronti della sua subalterna non va oltre la retorica tipica del genere. Non bastano per elevare qualitativamente personaggi del tutto privi di personalità battute ad effetto come quella che pronuncia quest’ultimo tirando in ballo niente meno che il ‘Re SoleLuigi XIVÈ l’impazienza della vittoria che garantisce la sconfitta’ per suggerire una tattica meno frettolosa allo scopo d’incastrare Charly e Zacchia.

I due padrini rivali sono in realtà due facce della stessa medaglia, cioè una coppia che nasce complementare e cresce giurandosi eterna amicizia e solidarietà nel momento in cui essi stringono un patto per far fuori un boss della malavita che ha appena ucciso un vecchio compagno di cella del giovane Charly, non appena è stato liberato. Essi sono però anche due galli nel medesimo pollaio e nell’inevitabile scontro di personalità ed aspirazioni sono destinati a convergere verso la resa dei conti.

Kad Merad nei panni di Zacchia riesce efficacemente a passare dal personaggio comico di Giù Al Nord a quello di un boss iracondo, crudele e feroce. Jean Reno a sua volta incarna alla perfezione il personaggio crepuscolare del boss Charly. Per concludere L’Immortale si potrebbe definire anche una sorta di western moderno, con Jean Reno che ricorda figure come quella, ad esempio, di John Wayne: uomini tutti d’un pezzo, contradditori, imperfetti, ma dalla spiccata personalità e positività di fondo, in grado di superare difficoltà apparentemente insormontabili. 

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